Nelle lettere, Kafka si chiede e chiede al suo compagno di studi Oskar Pollak: "Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?". Esclude così, fin dal gennaio 1904, la possibilità che la letteratura sia fonte di una qualche felicità. Franz sostiene infatti che, se dovessimo cercare questo nei libri, la letteratura sarebbe inutile.
il libro che ci rende felici, che rivela a noi la nostra felicità, è proprio quello di cui possiamo fare a meno. Se porta dove già siamo, è un'inutile scala; se finge una felicità che non possediamo, è solo un misero surrogato.
"Noi" continua Kafka "abbiamo bisogno di libri che agiscno su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi".
Eppure è la letteratura la sua forma privilegiata di comunicazione. Nel 1913 scrive a Felice Bauer: "A me ripugna parlare. Qualunque cosa dica è falsa secondo il mio intendimento. Il parlare toglie a tutto ciò che dico la serietà e l'importanza. Non mi pare neanche possibile altrimenti, poiché sulle parole dette agiscono continuamente mille fatti esteriori e mille costrizioni esterne. Perciò sono taciturno, non solo per bisogno, ma anche per convinzione. Soltanto lo scrivere è la forma a me confacente quando devo esprimermi".
Lo scrivere permette la distanza, allontana dall'interlocutore ma anche da sè. E' un gesto sovrano con il quale la vita si emancipa da se stessa, si sospende. E in questa sospensione si fa perfetta trapassando nel suo contrario: in non- vita (Fabrizio Desideri).
Nei diari, Kafka, scriverà nel 1922 "la mia vita è l'esitazione prima della nascita".
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