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venerdì 27 agosto 2010

Leopardi, la natura e il desiderio di infinito

Leopardi, lo sappiamo, descrive la natura come una matrigna che promette e poi non mantiene, che ispira nel cuore dell’uomo un desiderio di felicità destinato a restare per sempre inappagato e quindi ad essere generatore di infinita sofferenza. Tuttavia,
quando nei Canti la natura resta semplicemente la “bella d’erbe famiglia e d’animali”, diventa il luogo fisico e virtuale della pace e del ristoro per il poeta di Recanati.
Ne “La vita solitaria”, un idillio scritto tra l’estate e l’autunno del 1821, così descrive il paesaggio che circonda la sua casa:
La mattutina pioggia, allor che l’ale
battendo esulta nella chiusa stanza
la gallinella, ed al balcon s’affaccia
l’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
i suoi tremuli rai fra le cadenti
stille saetta, alla capanna mia
dolcemente picchiando, mi risveglia;
e sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
degli augelli sussurro, e l’aura fresca,
e le ridenti piagge benedico:
poiché voi, cittadine infauste mura,
vidi e conobbi assai, là dove segue
odio al dolor compagno; e doloroso
io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
benché scarsa pietà pur mi dimostra
natura in questi lochi…

E’ la stessa natura dell’Infinito, dove navigare è dolce: una natura che Leopardi descrive con l’affetto di chi conosce i suoni e le luci del giorno che nasce, che diventa meriggio nella seconda strofa, che finisce nella quarta, con un appello, usuale nelle sue liriche, alla luna.
In queste rappresentazioni rurali, intrise di affetto e di malinconia, il poeta osserva dall’alto della sua dimora (“d’in su la vetta della torre antica”), e ci offre anche una schiera di figure umane, appena abbozzate, delineate con pochi tratti ma con grande efficacia: il cacciatore che si duole, al mattino, perché le lepri durante la notte hanno danzato al raggio della luna ed hanno confuso le loro orme; la donzelletta che viene dalla campagna con il mazzo di fiori, che le servirà ad ornarsi per la festa; la vecchierella che, seduta sulla soglia, ricorda i tempi della sua giovinezza chiacchierando con le comari; il vecchierello canuto e bianco che ancora raccoglie legna e torna a sera portando sulle spalle la sua fascina; l’artigiano che cerca di finire in fretta il suo lavoro, per non dover tornare alla bottega nel giorno festivo.
Una vita brulicante, serena, operosa, che scorre in armonia con la natura, anzi ne fa parte, così come gli augelli, la gallinella, la pioggia mattutina e l’aura fresca. Non c’è tristezza nel vivere seguendo il corso della natura, la tristezza è del poeta che osserva e resta fuori, che riflette sulla vita e soffre per le sue stesse riflessioni.
La natura reale, quotidiana, a differenza di quella metafisica che parla con l’Islandese nelle Operette Morali, è il luogo del ristoro e della pace, a patto di essere capaci di lasciarsi prendere, abbandonando le speculazioni filosofiche: allora diventa possibile il contatto con l’infinito, che invece razionalmente resta sempre il desiderio inappagato e irraggiungibile per l’uomo.

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