Questo non è un post di politica, come potrebbe sembrare, ma di letteratura; prendendo spunto dalle polemiche intorno al nostro inno nazionale, strumentalizzate in maniera becera dalla bececa classe poltiica che ci affligge, sono andata a rileggermi con un po' più di attenzione l'Inno di Mameli, una canzone in cinque strofe di otto senari, con ritornello e schema metrico ABCBDEEF.
Goffredo, nato nel 1827, aveva solo 22 anni quando morì per difendere, insieme a Garibaldi, la Repubblica Romana. Un giovane patriota che ha dato la sua vita per quella che adesso viene derisa come "Roma ladrona" da alcuni di quelli che a questo Stato si preoccupano di prendere, ben più che di dare. Ma questo non è un post politico, quindi torniamo a "Fratelli d'Italia".
Fratelli, come la celebre lirica di Ungaretti, che coglie lo stesso spirito fraterno in un altro tempo, in un'altra guerra.
Fratelli è la parola- chiave della lirica di Mameli, che nella seconda strofa (troppo avanti nel testo, mi rendo conto, perché i leghisti moderni potessero leggerla) fa un'affermazione politica modernissima: "Noi fummo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi".
La storia, se studiata cum grano salis, gli dà ragione: i periodi più neri e burrascosi della nostra penisola sono quelli in cui gli altri Stati europei si unificavano diventando grandi potenze, mentre noi, come i polli di Renzo, suddivisi in staterelli regionali ci beccavamo cercando di strapparci a vicenda qualche borgo.
Ma la terza strofa risulta ancora più forte: "Dall'Alpi a Sicilia, dovunque è Legnano; ogn'uom di Ferruccio ha il core, la mano". Curioso che i leghisti di oggi abbiano attaccato e denigrato una lirica che esalta i leghisti di un tempo, quelli originali...
Al di là del senso politico, questa lirica resta la canzone di un ragazzo che canta le sue speranze, la sua visione del futuro, la sua voglia di vivere. Ha la freschezza dei ventidue anni del suo autore, che se fosse nato negli anni Sessanta, avrebbe cantato le canzoni dei Beatles.
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